CHI SONO         OPERE         SCRIVIMI                  PRESENTAZIONI         FOTO GALLERY         RACCONTI LA MIA LIBRERIA

IL SAGRATO


IL SAGRATO
racconto di Luisa Gossa
 
Il sagrato di ghiaia era silenzioso e solatio nel tepore del dopo mezzogiorno: avevo già pranzato, ed avevo fatto cenno di uscire muovendo appena il capo. Gentile una mano aveva fatto leva sul freno che aveva ceduto morbido, ed era iniziata lenta la discesa verso il cortile di porfido. I polsi doloranti avevano ruotato lentamente di mezzo giro verso l’ombra ghiaiosa. Ancora un tratto di percorso ed ero lì, a bearmi di luce e di calore e a sorbirne il benefico effetto sulle giunture cigolanti delle antiche articolazioni. Mi piaceva guardarmi attorno e riconoscere gli elementi minimi che variavano di giorno in giorno; riuscivo a contare i germogli del piantino di forsizia che sin da febbraio avevano iniziato ad aprirsi mutando impercettibilmente in bocciolo e in foglietta turgida. Ora erano già fiore ed il giallo vivido occhieggiava rispondendo al piacevole sole. Presto sarebbe arrivato l’uomo delle aiole ad alternare viole del pensiero a primule, narcisi e petunie in una mescolanza di essenze e di cromatismi. L’erba fragile, infatti, era già aerata, ed attendeva di essere di nuovo scissa e cosparsa di inquilini multicolori. Davanti a quello stesso spazio mi ero accoccolata, sessant’anni prima, di fianco a mio figlio, barcollante nei primi passi, per una foto in cui la mia giacca giallo girasole si confondeva con le bocche di leone come se l’avessi fatto apposta. Mi sentii uguale ad allora e mi venne da sorridere. Ora non mi sarei più rialzata da quella contorta posizione, sempre che fossi stata in grado di raggiungerla. Chiusi gli occhi e attesi il lieve insonnolimento del pomeriggio.
Non so se arrivassero in bicicletta o a piedi, ma ormai da una settimana erano puntuali. Presero due seggiole di plastica e le trascinarono sulla ghiaia scricchiolante verso il muretto, sedettero poggiando i piedi sulla panchina in pietra di fronte. A pochi metri da me, che, intanto, non esistevo.
Faccia a faccia, occhi negli occhi, mani nelle mani. Poche parole sussurrate, qualche lieve schiocco di labbra, una risatina d’argento. – Le tue labbra sanno di fragola! - - Le tue di cioccolata! – - E quando sarò così? – Sentii gli sguardi attraversarmi - Io ti vorrò sempre bene. - La dolcezza aleggiava e mi cullava leggera. Le voci si alzarono, sussultai. - Ehi, è tardi, devo andare subito: se mia madre non mi vede quando arriva, stasera non mi lascia più uscire...” Passi veloci in allontanamento, una rincorsa, ancora qualche risolino. Mi accomodai meglio e appoggiai il capo alla mano, appesantito dal sonno. Dentro di me sorrisi. Quanta dolcezza, amore per la vita. La mente corse a un pomeriggio meraviglioso, quando gli sguardi bastavano, amore mio, a farci camminare sollevati da terra e i sogni erano il nostro alimento, le speranze soltanto attese di realtà. Riassaporai la tua presenza quando sola mi rendeva forte e felice.
- Oh, ecco due seggiole, fermiamoci qui – un lieve trascinamento e altri due corpi ne presero possesso. Senza aprire gli occhi definii l’età, sui trent’anni, poco più, poco meno. Un lieve profumo di buona marca, stropiccìo di giornale, sbadigli. Commenti su un pasto troppo pesante. – Vai tu a prendere Luca a scuola? Bisogna portarlo a calcio - - Io? Non dovevi andare tu? Io stasera vado in palestra - - Tanto per cambiare… - - Beh, ieri sei andata TU in palestra - - Capirai, io ci vado una volta alla settimana, tu tre.- - Già, ma vai anche dal parrucchiere al venerdì e …- - Vuoi forse dire che non dovrei andare…- Shhhht, c’è la nonnetta che dorme. - - Beh, intanto è ora di andare, io rientro alle tre. - - E io ho la riunione alle tre e mezza. Hai di nuovo lasciato la macchina in pieno sole – Contrassi le sopracciglia, sollevata. Le sedie si scostarono con poco garbo e i passi si allontanarono affrettati e nervosi.
Cambiai mano e inclinazione al capo. Silenzio: iniziavano appena i merli a farsi risentire dopo il lungo inverno, ma ancora lontani; le fragili ossa percepivano calore e dentro di me sorrisi. Quanta frenesia, incapacità di godere della vita.
Tornai d’un balzo a quando il tempo non bastava mai, rapiva i momenti e le giornate assorbendo ogni dolcezza, dissapori leggeri logoravano gli attimi di pausa e le incomprensioni sembravano la sola colonna sonora della vita. Quante volte ci addormentammo schiena a schiena per non discutere. E sì che ci amavamo tanto, così tanto, ma eravamo incapaci di cedere. Lo eravamo diventati. Il correre dei ricordi mi turbò, cercai di scacciarli, vagando nell’arancio dell’interno dei miei occhi.
Passi lenti, ma decisi, voci sommesse. Le sedie strascicarono ancora, cercando angolazioni migliori. – Che bel sole. - - Chissà a Londra - - Magari gli telefono - - Di nuovo? Gli hai telefonato a pranzo - - Ma aveva fretta, ha detto due parole - - Lui dice sempre due parole - - Certo che arrivare a Pasqua sarà lunga senza di lui - - Sarà lunga la bolletta, se continui così - - Almeno servisse quella scuola… - - Visto che è pure cara … - Analizzai le voci: cinquant’anni, più o meno. Gente istruita, distinta, educata. Forse in pensione. La confidenza li faceva parlare come una persona sola, l’uno continuava le frasi dell’altro in un’unica argomentazione. L’unisono. Il ritorno ad essere coppia dopo anni di corse e di affanni dietro ai figli piccoli e alle occupazioni, il riscoprirsi complici, amici e forse innamorati della dolcezza che lentamente riemerge. Sorrisi rivivendo una gita con te, amore mio, a Cap Ferrat a bearci di sole mano nella mano come ragazzi, che ci riempì di tenerezza e rimase sempre indelebile tra i ricordi più dolci.
Sole, saette calcaree come arabeschi a definire il cobalto del cielo: mi sentii alzare in volo a gareggiare con le rondini di mare, mentre le voci accanto a me lentamente sfumavano in parole sussurrate, poi si facevano più nette, forse a un telefonino. Cercai una posizione migliore per la mia schiena artritica. strofinandomi contro la sedia. Ad occhio e croce doveva essere l’ora: infatti il rintocco della campana degli Angeli me ne diede conferma. Ancora qualche istante e saresti arrivato.
- Perchè ti ostini a dormire seduta? Io ho dormito un bel quarto d’ora, nel letto.
- Perchè non dormo: penso.
- Ah, si? E a che cosa? Vorrei proprio sapere cos’hai da pensare…
- A quanto ti voglio bene, brontolone.
Mi si pose alle spalle e mi condusse avanti, iniziò la passeggiata; portai un braccio all’indietro e misi la mia mano sulla sua. Presto sarebbe arrivata l’estate e il tripudio dei gorgheggi e dei colori della natura sarebbe tornato sovrano.
La stagione amata stava per arrivare, e le andavamo incontro insieme.


Nessun commento: