ANNA
DA RICORDARE
Racconto
di Luisa Gossa
La
prima cosa che l’aveva colpita alla Stazione di Cuneo era il fiume
di gente sciamante e vociante in musicali rotacismi, multicolore e
chiassoso, proveniente dall’altro treno, giunto dall’opposta
direzione.
Francesi,
si disse. Il primo benvenuto fu un “Depeche toi” di una robusta
anzianotta con cappellino in rafia bianca, rimasta interdetta dietro
di lei all’imbocco dello scalone. Si era scostata: avrebbe fatto le
scale con calma, con due valigie con la vita dentro; fino alle dieci
nessuno sarebbe venuto a prenderla, e non erano ancora le nove.
Il
sole batteva diretto sull’edificio bugnato, disegnandovi lingue di
luce; l’ombra diritta del faro cadeva sul passaggio pedonale,
indicando il lungo corso al di là di esso come un percorso
obbligato.
Anishoara
si era fermata sotto l’ombra chiudendo gli occhi, rivedendo
Bulevard Yuri Gagarin davanti alla “sua” stazione, lasciata da
tre anni ormai, nel sole malato di un marzo lontano, riassaporando i
sogni masticati per anni con la ciorba e la mamaliga, e ancora
all’orizzonte, mai toccati ancora, ancora al di là.
Ora,
passati tre mesi da quel primo martedì cuneese, aveva preso buona
confidenza con il mercato, sempre brulicante di curiosi tra i banchi
delle scarpe di Barge e delle vestimente di gabardine cinese, che la
facevano sognare di riempire valigie e borse di regali.
Aveva
preso buona confidenza anche con Anna, la professoressa, o la
piccolina, come amava chiamarla, dato il fisico consunto dall’età
da renderla quasi bambina, e gli occhi smarriti che vedevano ciò che
non c’era e non sapevano più riconoscere ciò che era. Anna:
strano caso della vita, si chiamava come lei, detta Ani in memoria di
una nonna sparita a Norilsk in tempi lontani.
Ora
la grande casa guardava di sbieco la stazione e ancora ogni giorno,
passandovi con gli occhi, Ani si chiedeva se mai avrebbe avuto voglia
e coraggio di tornarvi. E ripartire di nuovo.
Guardando
dall’altro poggiolo, invece, intravedeva il retro delle case
affacciate sulla piazza Galimberti, allora si consolava, aspettando
un altro martedì.
Notti
si susseguivano uguali ai giorni, di veglia o di assopimento senza
una logica, mentre l’estate era trascorsa nella penombra del
salotto, occhi negli occhi durante i pasti a “pappetta” e lunghe
masticazioni di telenovelas in attesa di sera.
A
volte, passeggiando la mattina presto con Anna, incontrava Meri e la
sua “signorina”: imitavano le giovani madri con carrozzine
cariche di promesse e di aspettative, che si confrontavano sugli
orari del biberon e sulla marca migliore di pannolino
anti-irritazione-del-sederino.
Ma
le loro conversazioni languivano sulle traverse antidecubito e presto
sfrondavano nei ricordi di Bulevard Stefan Cel Mare, in stretto
dialetto per non essere fraintese o anche solo capite. Passava la
gente e le guardava, le badanti, con la faccia da slave, guarda,
assomigliano al papa, saranno polacche, dicevano gli occhi.
Ani
pensava che non sarebbe stato sempre così. Da tre anni lo pensava,
che qualcosa sarebbe arrivato anche per lei, e ringraziava già che
la Caritas avesse avuto considerazione delle sue referenze di Torino,
e l’avesse sistemata tanto velocemente, e finanche bene.
Anna
era buona, mite e dolce come un passero dalle ali fragili, la
osservava senza vederla, le sorrideva senza riconoscerla, parlava
poco, nulla quasi di sensato.
Fu
per questo, e per mille altre cose, che quella notte, ai primi colpi
dei fuochi artificiali, decise di seguire la dolce follia e dirle di
sì.
Va
bene, piccolina, ti metto il soprabito di mussola e il cappello
ciclamino.
-
Devo andare, mi aspetta, non posso tardare.
Lascia
solo che mi stringa il foulard al mento e prenda in tasca le chiavi e
il fazzoletto, non scappare, stai buona.
La
notte dolce lieve settembrina, ancora carica di rimasugli di estate,
era calata a dipingere le case di ombra. Una lamina sottile di
chiarore riluceva ancora come un’impercettibile aureola intorno al
Monviso e al Visolotto, mentre Sirio ammiccava, complice.
La
mano stretta e il passo frettoloso, pericolosamente chino in avanti,
in avanscoperta del suo stesso procedere, come se sapesse la strada,
Anna pendeva verso il buio lasciandosi reggere in un etereo sorriso,
come se sapesse la strada.
-
Devo andare.
Sì,
piccolina, andiamo.
La
scalinata sbucava a pochi passi dal Ponte Nuovo, calando ripida in
poche rampe scoscese: la tenne quasi in braccio, se ti rompi qualcosa
chi lo sente l’avvocato, perdo il posto e la reputazione per averti
accontentata.
La
stradina proseguiva in discesa passando davanti alla Cappella di
Sant’Anna, fino alla pedancola ad arco sul fiume quasi asciutto,
che mormorava appena, sotto i lampioni, ma non faceva paura.
Non
c’era anima, tutti si erano riversati sulla sponda opposta della
città , tutti a vedere i fuochi di San Michele, una serata così
bella, nera ad est a far da sfondo ai lampi, per noi soltanto i
colpi. Ani prese Anna alla vita, reggendola nella sua inquieta corsa.
Vicino, vicino al greto, vieni piccolina, tocchiamo le pietre del
fiume se sono ancora calde del sole.
Il
terzo botto risuonò tra le sponde alte dei bastioni e della riva
sinistra: Anna si fece ancora più piccola, scendendo a rannicchiarsi
tra le sue braccia. Si sedettero allora sulla grossa ghiaia sabbiosa,
sotto una falce di luna che appariva appena.
-
Ora arriva, dobbiamo nasconderci.
Chi
arriva, piccolina? Il lampo colorato non lo potremo vedere, è al di
là di tutto.
Ma
nella mente nebulosa avvolta dalla notte salivano rapidi i ricordi,
come nitide presenze, luminose figure.
-
Sono ai Sabbioni, i partigiani, ma scenderanno a prendermi, prima che
arrivi la milizia: sono venuta fin qui in bicicletta mica per niente.
– Uno squarcio di chiarezza: la salita in bicicletta con Rina, fino
a Vernante, partite da Cuneo che faceva appena chiaro, sessant’anni
prima.
Sì,
sì, ora arrivano.
Arrivano...
Ani chiuse gli occhi e a sua volta scivolò nel tempo e nella
memoria. Rivide la faccia di Sergej che la guardava terrorizzato, ora
arrivano arrivano, tieni stretto.
Una
cascina isolata, una notte fredda e nera, un dolore lancinante al
basso ventre, cinque anni fa.
Anna
biascicava lamentosa: - Prima di partire mi ha detto che aveva una
cosa da darmi, ma attenta, attenta. Se ti prendono ti fanno la pelle.
Ho preparato una torta - si sarà mica sbriciolata - in montagna c’è
la fame, gli farà bene. Zitta, arrivano le camionette, giù la
testa.
Nelle
orecchie di Ani risuonava un’altra voce: - Mangia qualcosa, Ani, o
non avrai la forza di farlo questo bambino, diceva Sergej, ma il
furgoncino non arrivava e il bambino era messo male, dio che dolore,
non ce la faccio.
Politie,
politie, dove vai Sergej? Non lasciarmi, ti prego, proprio ora!
Esplodevano
i colpi ora a mitraglia di fuochi invisibili e lontani, radi bagliori
illuminavano a stento occhi spaventati e di verde l’acqua in corsa
sui sassi.
Un’altra
dolorosa litania: - Perchè sparano? Li avranno presi? Sono arrivata
tardi, tutta colpa tua... - Anna percorreva il cielo con lo sguardo
inquieto, alla ricerca di Rina, di qualcuno, di un’anima
invisibile.
Perchè
non arriva il furgone, Sergej, sparano in aria, ho paura, non dovevi
lasciarmi sola; Ani si coprì gli occhi con le mani per non
riconoscere i ricordi, sempre più netti.
Abbracciò
stretta Anna e piansero insieme, gridando alla luna e al fiume la
loro disperazione.
Per
un saluto mancato, un addio non espresso, un viso mai più rivisto,
labbra mai più baciate.
Per
un figlio perduto, un amore finito davanti a un cascinale e
poliziotti incattiviti in cerca di ribelli mai più riapparsi.
Le
grida squarciavano l’aria di fiume, coperte dai botti ed echeggiate
da qualche cane insospettito, mentre le lacrime scendevano copiose a
lavare dolori antichi e le braccia stringevano ancestrali amori,
sortendo una consolazione intima e inattesa.
Più
tardi, molto più tardi, quando tornò il silenzio, e il buio padrone
del greto ghiaioso, i passi in salita si seguirono lenti e tribolati,
ma quasi graditi. Il dolce peso di Anna tra le sue braccia,
abbandonato e alleviato, un sorriso sulle labbra, gli occhi chiusi.
Sì,
piccolina, andiamo a casa.
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